Cosa insegnano gli oggetti rotti: educazione e archeologia

Bambini che osservano reperti archeologici in una vetrina museale durante una visita educativa
Foto di Gloria Carraro

C'è qualcosa di profondamente affascinante nei frammenti.

Li ho sempre guardati con curiosità, fin da bambina. Un pezzo di ceramica rotta, un oggetto scheggiato, un affresco sbiadito: non sono semplicemente “cose rovinate”. Sono indizi. Tracce. Porte aperte su storie che non conosciamo ancora.

 

In archeologia, ogni frammento viene raccolto, pulito, osservato. Si studiano le forme, le fratture, i margini. Non si cerca solo di ricostruire l’oggetto com’era, ma di capire cosa è successo. Dove è stato. Chi lo ha usato. Come si è rotto.

Un vaso rotto, paradossalmente, racconta più di uno rimasto intatto. I cosiddetti "oggetti rotti" diventano veri e propri testimoni di una storia più ampia.

 

E allora mi chiedo: perché, nell’educazione e nell’apprendimento, abbiamo così tanta paura delle crepe?

Abbiamo imparato a pensare alla formazione come a qualcosa che deve essere ordinato, continuo, “intero”. Ogni errore è una deviazione da correggere. Ogni passo falso, un ostacolo da superare in fretta. Raramente ci fermiamo a guardarli davvero, gli errori. 

 

Eppure, proprio come per un reperto archeologico, anche nella vita di chi impara (e di chi insegna) i momenti più rivelatori sono spesso quelli “rotti”. Un fallimento, un dubbio, un’interruzione. Quei punti in cui qualcosa si incrina, e si è costretti a rallentare. Sono questi i momenti in cui si annida il valore dell’errore, non come mancanza, ma come occasione.

 

 

Una pedagogia dei frammenti: forse è proprio questo che ci serve oggi.

Un modo di educare che non ha paura delle crepe, ma le accoglie. Che non pretende coerenza assoluta, ma valorizza i percorsi non lineari. Che sa che imparare davvero significa anche — e soprattutto — imparare dagli errori.

Educare, allora, non dovrebbe voler dire "aggiustare" chi si è rotto, né riportarlo com’era prima. Significa, piuttosto, imparare a ricostruire con rispetto. A custodire ciò che resta. A valorizzare ciò che si trasforma.

A riconoscere che non tutto deve tornare come prima per avere valore.

 

Come fanno gli archeologi con i frammenti del passato, anche noi — educatori, genitori, adulti — possiamo imparare a guardare con più attenzione ai pezzi rotti. Non per giudicarli, ma per leggerli. Non per sistemarli in fretta, ma per ascoltarli.

La ricostruzione educativa non cerca la perfezione, la ricostruzione educativa non è un processo meccanico. Non cerca la perfezione, ma il senso.

Ogni crepa può diventare uno spazio di comprensione. Ogni deviazione, un’occasione per vedere meglio. E a volte, proprio lì dove qualcosa si è spezzato, può nascere una nuova forma. Una bellezza diversa. Più fragile, sì, ma anche più vera.

Imparare non è un processo lineare, ma fatto di prove, errori e aggiustamenti continui, una sorta di mosaico (sempre di archeologia parliamo, dopotutto 😄).

 

E se iniziassimo a vedere ogni frammento non come una mancanza, ma come parte di una narrazione più ampia?

Forse allora l’educazione diventerebbe davvero ciò che promette di essere: un percorso umano, fatto anche di rotture, errori e trasformazioni.

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